di Alice Bianchi
È sempre meglio scrivere “il giorno dopo”, con i pensieri chiariti e uno studio più fresco dei nessi tra situazioni e parole. Oggi è “il giorno dopo” il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e il giorno dopo ancora il videomessaggio che il ministro Valditara ha pubblicato a tal proposito: «La facciata del ministero dell’istruzione e del merito sarà dipinta di rosso, perché rappresenta il sangue, rappresenta la violenza, rappresenta le umiliazioni che tante donne hanno subito e continuano a subire». Il ministro ha reso pubblico questo messaggio alla sera della vigilia del 25 novembre, mentre ancora risuonava nelle orecchie di tutti e tutte un’altra sua frase, pronunciata tre giorni prima ed emersa sulla stampa proprio la mattina del 24: «Evviva l’umiliazione, che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità». Stava parlando degli studenti che incorrono in sanzioni per aver commesso episodi di violenza in classe: sosteneva che la sospensione non è sufficiente, mentre i lavori socialmente utili, esperienza di umiliazione, educano alla responsabilità e aprono la via al riscatto sociale. Molto è stato detto in proposito, ma forse è mancata una riflessione che notasse la coincidenza tra queste parole e la ricorrenza del 25 novembre.
Il ministro ha espresso infatti, nel giro di pochi giorni, due opposti giudizi sulla stessa parola “umiliazione”: da una parte sarebbe auspicabile (perché avrebbe appunto un valore educativo), dall’altra condannabile, anzi da prevenire ed evitare. Possiamo essere certi che il professore – lo è in senso proprio, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino – non sia uno sprovveduto, e che dunque ci sia una ragione radicata per cui non ha colto una contraddizione tra i suoi due interventi. Si potrebbe notare, per esempio, che la sera del 24 novembre il ministro ha parlato di donne, mentre la mattina del 21 novembre ha parlato (specialmente) di uomini. Certo, di uomini sotto i 19 anni e che frequentano gli istituti scolastici, ma sempre uomini: “studenti”, ma non “studentesse”. I suoi discorsi sarebbero così perfettamente consequenziali: “umiliare i maschi violenti serve a dissuaderli dal commettere nuovamente violenza, e questo è il modo migliore per proteggere le donne”. Se all’apparenza il ragionamento fila, ha però due possibili impliciti, alternativi uno all’altro ed entrambi problematici: o esclude la possibilità che a commettere un episodio di bullismo sia una ragazza e non un ragazzo, oppure divide le donne tra chi si merita umiliazione e chi non se la merita.
- Se si prende per buono il video del 25 novembre che condanna le umiliazioni subite dalle donne, infatti, è impensabile che il ministro abbia invocato quasi contestualmente un’umiliazione pubblica per le donne più giovani (per quanto prepotente, ogni studentessa rientra nella categoria). Sembra più verosimile che il professor Valditara abbia del tutto escluso che la violenza possa essere agita da donne. È pensiero diffuso e ancora pazientemente da sradicare quello che assegna l’aggressività ai maschi e la delicatezza alle femmine.
- Se invece si tiene fede alle dichiarazioni del 21 novembre, e dunque ci si attesta sul principio “donna o uomo, chiunque sbaglia dev’essere punito”, allora ne consegue che ci siano giovani donne violente che meritano una risposta dura (un’umiliazione) e altre indifese che vanno protette e comprese nel loro ruolo di vittime. Condannare le umiliazioni subite dalle donne e insieme auspicare l’umiliazione per una studentessa sanzionata, presuppone che infliggere un’umiliazione sia giustificabile se è una reazione a un comportamento “cattivo”. Questione molto delicata: un gran numero di uomini violenti giustificano la propria violenza come reazione legittima ai presunti comportamenti sanzionabili della propria compagna. «L’ho picchiata perché mi tradiva» è la traduzione patologica, trasposta nella coppia, del principio di educazione punitiva proposta dal ministro sugli studenti. «L’ho umiliato perché ha sbagliato»: non è la stessa cosa?
Un sistema complesso va pensato come tale. Non si può credere che qualsiasi metodo educativo sia funzionale a costruire qualsiasi mondo vogliamo: ciascun metodo educativo è funzionale a un certo mondo, proprio quel mondo che esso rappresenta. Proporre l’umiliazione a scuola, come auspicabile sollecitazione al riscatto, significa intenderla come elemento accettabile in ogni altro luogo della società, inclusa la relazione tra generi. La scuola non è un compartimento stagno rispetto al resto della vita civile, è la sua linfa.
A margine: esiste un Decreto Legge, approvato nel 1998 e aggiornato nel 2007, che si chiama “Statuto degli studenti e delle studentesse”. All’art.4 comma 5 prevede che allo studente o alla studentessa sia «sempre offerta la possibilità di convertire [le sanzioni] in attività in favore della comunità scolastica», il che rende evidente come da tempo i lavori socialmente utili siano immaginati dagli stessi studenti e studentesse come qualcosa di desiderabile, perché molto meno umiliante rispetto all’allontanamento previsto da una sospensione. In quello stesso Decreto, non a caso, si dice anche: «La comunità scolastica [interagisce] con la più ampia comunità civile e sociale di cui è parte [e] contribuisce allo sviluppo della personalità dei giovani, anche attraverso l’educazione alla consapevolezza e alla valorizzazione della identità di genere» (art.1 comma 3).